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The Wolf of Wall Street, i lupi siamo noi
Di Matteo @ 25/01/2014 - in Recensioni - Commenti (0)
Martin Scorsese si arrende. E vince.
Si arrende alla scalata vuota e spensierata di Jordan Belfort, fatta di tanto sesso, tanta droga e tanti soldi, senza esaltarla né condannarla. Vince perché capisce che Belfort non è l'unico colpevole e punta il dito contro i più insospettabili (chi? Ve lo diciamo alla fine). Capisce anche che del personaggio in sé non c’è davvero molto da dire, si possono solo mostrare la famelica ambizione e gli esiti farseschi, eccessivi e degenerati.
Il giudizio morale sul truffaldino broker spetta a chi si trova al di là della quarta parete, a quel pubblico cui spesso, beffardo e provocatorio, si rivolge un DiCaprio folle e travolgente, che dopo Il Grande Gatsby e Django Unchained corona con The Wolf of Wall Street quella che ha definito come la sua personale trilogia su potere e ricchezza.
Jordan Belfort (Leonardo DiCaprio), quando entra alla Rotschild, la sua prima agenzia, non è ancora il lupo che imperverserà per i seguenti 180 minuti (sì, tre ore, perché il vuoto è fatto di eccessi e di accumulo). Lo trasforma Matthew McConaughey, capace di prendersi tutta la scena in una manciata di minuti, mentore perverso che, novello Dante, conduce il giovane Belfort nell’inferno del brokeraggio (la metafora è di DiCaprio stesso).
È un vortice, la finanza, un gorgo che risucchia chi ci mette piede e ne accetta le non-regole. Ha i suoi maestri e tanti aspiranti discepoli disposti ad ascoltare. Non è un caso che Belfort venga rappresentato come un abile oratore, un santone che parla simultaneamente ai suoi dipendenti e, come già detto, a noi del pubblico, ascoltatori complici. E di proseliti ne fa parecchi.
Chi guarda il film, infatti, fino al momento della caduta (poco rumorosa perché vuota tanto quanto la scalata che l’ha preceduta) non fa altro che divertirsi, complice l'impeccabile montaggio della sempre infallibile Thelma Schoonmaker, tra risate e sorrisi indirizzati a Belfort e al suo team capitanato da Jonah Hill.
Scorsese a questo punto potrebbe chiudere il film sui campi da tennis, e relegare il film al limbo dei compiaciuti divertissement stilistici. Invece sceglie di riprendere, per un'ultima volta, la metafora del predicatore e del suo pubblico.
E con una sola inquadratura ribalta tutto. Fissa il suo sguardo su un gruppo di persone che pendono dalle labbra di Belfort, come tanti piccoli lupi in potenza.
Quando ci accorgiamo che quei volti sono volti comuni, come i nostri, è ormai troppo tardi. Lo schermo è diventato uno specchio, e le persone che vediamo sono solo un riflesso, il nostro riflesso.
Quel pubblico siamo noi. E noi siamo i lupi.
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